Non è mio costume parlare di moda, però, quando faccio un giretto in
centro e torno a casa con i piedi indolenziti, le mani vuote e una gran nausea, mi
saltano i nervi, e quando mi saltano i nervi, metto il mio canale Youtube preferito e ballo da sola.
Ma a volte non basta.
Che brutta visione il prêt-à-porter
dei giorni nostri!
Fantasia zero, modelli che puzzano di vecchio e tagli d’abito fatti a
occhio.
E poi basta, non se ne può più di spendere denaro per roba che dura sì e
no una stagione. Inoltre, l’abito fa il monaco e vestire con gusto è un’arte complessa visto che, ciò che ci piace, non sempre si coniuga con quello che siamo e soprattutto con ciò che si trova in giro.
Gli abiti che indossiamo dovrebbero rappresentarci, e affinché nulla
contrasti tra la nostra persona –colori, struttura fisica e carattere- e come si
desidera apparire, è bene armarsi di pazienza e scarpe comode.
Avere un forte senso critico è il punto nodale per possedere un buon
guardaroba, perché vestirsi con classe, significa prima di tutto conoscere i
difetti da nascondere e i pregi da sottolineare. Avere personal shopper, invece, è una di quelle tendenze idiote inventate
dai divi di Hollywood, e che mal si coniuga con l’italico e invidiato estro
artistico e con la penuria di denaro in circolazione al momento.
Mi è capitato tante volte di incontrare donne di gran classe vestite
con autentiche “pezze” e donne che avevano addosso milioni ma puzzavano di
“cafoneria” lontano un chilometro.
Perché l’eleganza non è che armonia tra ciò
che si è e ciò che s’indossa.
La moda, si sa, se seguita pedissequamente porta a risultati che
offendono spesso la vista e il paesaggio circostante. L’uso indistinto di jeans
a vita bassa è finalmente tramontato, e per fortuna non è nemmeno più così
necessario farsi condizionare dalla tendenza che il mercato impone. Il problema,
però, è che si fa ogni giorno più difficile reperire abiti originali e di buona
fattura. Perché semplicemente non se ne fanno più.
Personalmente trovo le offerte del mercato della moda prêt-à-porter poco
soddisfacenti, naturalmente per il mio gusto, e per il mio carattere che sfugge
volentieri a tutto quanto sa anche lontanamente di omologazione: scarsa scelta
di colori, pessima fattura, a volte modelli perfetti ma solo su donne
magrissime e alte. Ci sono sempre meno marchi Made in Italy e, a meno di
spendere cifre assurde, vedo proposti in vetrina, e a prezzo maggiorato, gli
stessi capi che trovo sulle bancarelle di via Appia, nello storico mercato di
via Sannio, sempre nella capitale, o in tutti i mercatini rionali delle nostre città.
Va da sé che io ho risolto il problema alla radice scegliendo il Vintage,
e ora che la tendenza di parlare dei mercatini delle pulci da parte delle Vip
di turno si è assopita, eccomi qui a tesserne le lodi.
Innanzitutto è necessario fare una distinzione tra “usato” e “Mode Vintage” o “Vintage
Fashion”.
Per “usato” s’intende qualsiasi capo sia appartenuto ad altri, e anche
lì si trovano ottime soluzioni, il Vintage, invece, si riferisce a oggetti o capi
d’abbigliamento che acquistino valore nel tempo, sia per il marchio (introvabile
o d’alta moda) sia per la fattura e i materiali usati.
Nel Vintage ci sono pezzi battuti all’asta a cifre da capogiro e Musei
che si contendono rarità indossate da attori o personaggi della politica e che,
assieme a loro, fanno parte della storia stessa.
Vintage, termine che e deriva dal francese “vendenge” e dal latino
“vindēmia”, ha quindi a che vedere con le buone annate dei vini -ecco perché per
certi affari ci vuole “naso”- e si tratta di ogni capo che abbia
una distanza di almeno vent’anni da noi. Un bel giubbottino con spalline e
strass anni ottanta è oggi, a tutti gli effetti, considerato “vintage” da
collezione, soprattutto se firmato.
In quel periodo si andava a Prato
dove, in uno dei più grandi mercati di stoffe e abiti usati, amiche costumiste
con budget da finanziamento pubblico, e sarte teatrali in cerca di occasioni,
trovavano grandi abiti a un costo minimo.
Naturalmente, in questo caso è tutta una questione di occhio.
Trovarsi di fronte a decine di bancarelle sulle quali, ammassati alla
rinfusa, migliaia di capi urlano “prendi me”, può anche dare alla testa.
Ma basta non cadere nel panico che dal caos viene fuori il capolavoro.
Camicine di seta, gonne plissettate con cintina coordinata, pantaloni
di tweed, giubbotti di pelle, di camoscio, paltò militari, cappelli, abitini
“prendisole” anni settanta, copricostume e minigonne, occhieggiano dai capannoni
e escono dalle buste in cerca di acquistare nuova dignità e una nuova famiglia.
E oggi più che mai, vittime del mondo globalizzato, sarebbe ora di dire di no al gusto
degli altri.
Ovunque si vedono gli stessi abiti, stoffe di dubbio valore, bottoni
di plastica, che nel bel mezzo della festa e al centro della pista mentre ci
scateniamo in un twist, saltano via perché cuciti male.
E se siamo d'accordo su tutto, è comunque sempre essenziale domandarsi, parafrasando Serge Latouche e prima che la commessa infili il nuovo acquisto nella
busta, se ciò che abbiamo scelto ci serve veramente e se sì, quanto durerà.
Ci sono abiti che possono restarmi addosso un’eternità, come una
seconda pelle.
Una giacca dell’esercito della salvezza, comprata ad Amsterdam al
mercato delle pulci, sul porto, l’ho dovuta gettare via due anni fa perché deceduta
per consunzione. Un pantalone nero a “zampa” di crepe de chine e un abito nero
a balze di cotone grezzo a firma “Mariselaine”,
storico marchio di Via Condotti e sconosciuto a molti, sono stati usati da mia madre
per vent’anni (1965-1985) e da me ancor oggi.
Parlo di roba indistruttibile, di classe e tagliata come
dio comanda, mai fuori moda e sempre di tendenza. Ma oggi, siamo in grado di
trovare capi di questa fattura e a prezzi umani?
Io dico di no, ed è per questo che scelgo le bancarelle.
Inoltre, sappiamo che anche le grandi firme si servono di
manodopera a basso costo e di chissà quali stoffe, per cui credo che la
questione “alta qualità” sia un male diffuso anche ai piani alti.
E se in un negozio trovo un pullover al 70% di materiale acrilico a
quaranta euro, e in un negozio dell’usato ne posso trovare uno di puro cachemire, e allo stesso prezzo, mi domando perché esitare.
Se in una boutique di medio livello provo un abitino ultima tendenza
tagliato standard, zeppo di fili che escono dalle cuciture a cinquanta/sessanta
euro, e in un negozietto dell’usato trovo un modello Cloè, tagliato e rifinito
come si deve, io non ho dubbi.
Basta tastare le stoffe e scegliere modelli classici e di sartoria e
anche se in quel momento ci pare possano non servire, sono sicura che
troveranno presto il giusto abbinamento con ciò che già abbiamo.
Consiglio di cuore di usare il denaro con criterio e di fare
un giretto al mercato dell’usato prima che in un grande magazzino che puzza
lontano un miglio di bassa qualità e di sfruttamento della manodopera.
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