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domenica 18 novembre 2012

Camera d'albergo


Ti spedirò un paio di scarpe fatte a mano: devo scusarmi per ieri, è stato disonesto.
Il primo quarto d’ora sarà trascorso senza che nemmeno guardassi l’orologio. Anzi, forse sei arrivato anche tu trafelato, un po’ in ritardo, forse hai avuto un contrattempo o per un senso di colpa improvviso hai telefonato a tua moglie per dirle quanto la ami e quanto ti dispiace dover ritardare per cena: ma sai è un incontro importante, ma sai un contrattempo.
È normale in una redazione come la tua.
Forse è stato quando hai sentito i sei tocchi dell’orologio della Banca, forse è allora che hai pensato, ma solo per pochi istanti, che lì ci lavora mio marito. Ed è probabile anche che tu ti sia soffermato su un pensiero più razionale domandandoti cosa stessi facendo lì in quella stanza e in attesa di una sconosciuta, anziché scendere, pagare, lasciarmi un biglietto, entrare in macchina, fare un paio d’isolati e chiamare tua moglie, come fai ogni giorno, per domandarle se per cena avesse bisogno d’altro.
Per un quarto d’ora ti sei messo tranquillo poi, hai stazionato in uno strano malessere che in tre minuti è diventato preoccupazione e poi, ansia: il marito l’ha scoperta, ha dimenticato, ha avuto un incidente.
Allora sei andato alla finestra.

Non avevi ancora notato gli infissi tipici di certi alberghi che sembra di stare in un bunker poco prima di un’esplosione nucleare, lì sotto, il mondo rapido si dà da fare mentre tu sei al centro esatto di un tempo immobile. Come quando da bambino saltavi la scuola.
Tornato al letto hai acceso e spento il display del cellulare. L’hai fatto più volte, come se in pochi istanti potesse essere arrivato un mio messaggio di scuse.
Poi, vergognandoti anche un po’, hai chiamato la reception.
Il tizio, svogliato e stanco dal via vai di una convention, ti ha probabilmente risposto in modo un po’ distratto, magari mentre porgeva la chiave a un cliente o faceva un cenno al boy dell’ascensore che portasse su le valige. Allora hai insistito, non ti sembrava vero, non era possibile che ti avessi lasciato lì come un cretino e senza darti spiegazioni. Ma forse non avevo capito e ti stavo aspettando giù, nella hall – tu che mi avevi immaginata già mille volte distesa in una luce soffusa e in sottoveste, magari nera, sicuramente di seta pura.

Hai insistito, hai domandato al ragazzo stanco se per caso fossi lì in giro: la prego, abbia pazienza, si guardi intorno.
E ti ha messo in attesa.
Anche quello deve esserti sembrato un tempo orribilmente lungo, e mentre una parte di te sperava in un esordio felice del concierge, l’altra, ti riportava con i piedi per terra: che troia, hai pensato, lo so.
Chissà come mi hai descritta, quali le peculiarità che ti sono sembrate più giuste affinché il suo occhio distratto poetesse intercettarmi tra la folla sudata dei congressisti.
Molto alta, bionda. Austera, elegante. O forse hai domandato solo se c’era stata una chiamata per te.
Quando hai abbassato il ricevitore e hai scorto davanti a te un tempo tutto bianco, sei entrato in uno stato d’ansia oppressiva: lo senti, lo sai.
È l’ansia di non sapere se rimanere o andare quella che ti prende mentre sei in piedi tra letto e comodino. E hai anche pensato che certi alberghi non hanno nulla di romantico, e che ci vuole proprio una passione animale per farlo là, a due passi dalla banca dove mio marito lavora e dalla strada che porta al lago, che è la stessa che fa ogni giorno anche tua moglie per tornare a casa.

Poi, ma solo perché è un caso estremo, hai aperto una bottiglina di Ballantines e l’hai buttato giù in un fiato, poi un’altra. Poi hai fatto come faccio io, e le hai infilate tutte nella ventiquattro ore.
Hai riacceso il display, hai scorso in fretta alla rubrica sino al mio nome ma non hai trovato il coraggio.
Quando sei uscito dal bagno eri pieno di tristezza, vinto dal malessere della sconfitta.
Tutti quei sogni, i progetti, le mie parole, che leggevi furtivamente dal computer della redazione e che lì, davanti a tutti, facevano un effetto visibilmente osceno.

Allora ti sei disteso sul letto e hai accarezzato ancora quel piccolo sogno pornografico. Una roba che si conserva in un microscopico post it ripiegato più volte e infilato nel portafogli.
Mi hai anche attribuito un milione di buoni motivi e di giustificazioni, un adulto si rammarica di un imprevisto, non lo prende come un fatto personale.
Più tardi però, offeso in quell’ottima considerazione che hai di te stesso e della tua carriera, hai cominciato a bruciare d’amore per una stronza che ti ha mandato in bianco e non per quella graziosa creatura che ti porti appresso da dieci anni.
Sei una bestia.

Hai sentito un rumore in corridoio e subito ti sei alzato. È lei, hai pensato, sei tu, hai ripetuto più volte, e hai avvicinato l’orecchio alla porta.
Sei rimasto così finché non hai sentito i brevi passi dissolversi e risuonare ancora un po’ per le scale prima di finire nel nulla.
Tutto è possibile in certi casi.
All’occorrenza si crede anche nei miracoli.
Infine, hai stretto i pugni e mi hai dato più volte della stronza, tra i denti, schiacciata tra le tue mascelle forti, mi hai immaginata in ginocchio davanti a te completamente nuda. Mi hai schiaffeggiata sino a farmi sentire le guance in fiamme e non hai detto altro prima di spingere la mia bocca sulla tua carne.
Mi hai trattata come va trattata una stronza, lo hai fatto anche più tardi, a letto, con accanto tua moglie.
Hai tremato all’idea che potesse sentirti, ma dovevi farlo ancora una volta, era un tuo diritto dopo il mio odioso misfatto: lasciarti da solo in una stanza d’albergo. 
Sei rimasto attaccato alla porta e alla tua idea di vendetta finché non ti sei soddisfatto da solo.
Hai lasciato in bagno una frustrazione che non si può raccontare, che è disonore e fastidio per un maschio.
Hai dato uno sguardo alla stanza e poi sei andato via in fretta.
Dopo Natale, per il nuovo anno, arriveranno le tue scarpe nuove.
Porti il quarantuno e mezzo, me l’hai scritto a proposito del fatto che non trovi mai quella calza a pennello. 
Prima, forse, dovrei misurateli bene i piedi mentre mi guardi dall’alto. Dovresti lasciarmelo fare per tutto il tempo che occorre, fosse pure per un’ora o per l’eternità.
(Foto di Elena Oganeysian)

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