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martedì 22 gennaio 2013

Giochi di ruolo.



Aspettavo da anni questo momento.
E poggiò sul tavolo, in un movimento calmo e misurato, le dieci dita lunghe e luccicanti di anelli e unghie smaltate.
Esattamente quattro anni, Disse la donna arrotando le “erre” affinché la precisazione non passasse inosservata.
Ma tu lo sai.
Sbaglio?, E nella pausa gli sorrise dolcemente e senza che in quel punto di domanda vi si potesse insinuare altro che la domanda stessa.
Sì, ho sempre sperato di averla, prima o poi, l’opportunità di parlarti senza il pericolo che il telefono squilli, che entri qualcuno, che tu debba rispondere a mail, sms, interazioni, commenti.
Post.
Tuit.
Nemmeno io me lo sarei aspettato. No, non in questo modo, non oggi per lo meno.
Ma visto che ci sono, visto che finalmente ho la tua preziosa attenzione... beh... non farò certo la timida.
No.

Si guardò intorno come per prendere confidenza con la scena, misurando a grandi passi quell’enorme spazio che guardava gran parte del centro di Milano.
È bellissimo qui. Disse entusiasta come una bambina al parco giochi.
Spazioso, nuovo, arredato in modo personale, niente a che vedere col mio ufficio un metro per uno al secondo piano, stipato in fondo a sinistra, accanto ai servizi e con vista sull’interno buio.
No. Decisamente tutta un’altra storia.
Guarda!, E iniziò a muovere larghi passi di danza, un invito a quello che poteva sembrare un tango anche tecnicamente perfetto.
Poi si fermò di colpo e si voltò verso la porta. Nessuno, no, non era niente, E ridistese il volto in un sorriso materno e disponibile.
Beh, complimenti, davvero bravo. Encomiabile, direi.
Sì, girava voce che quassù tu e il Vice ve la spassavate, ma sai, con la riduzione del personale e il migliaio di licenziamenti attuati e previsti, pensavo che un po’ di “montiana” sobrietà... sì, sarebbe stata auspicabile.
Non credi?

Sai, certe parole le ho cercate così a lungo –perché non fossero banali- le ho ripassate così tante volte in mente – intonazione, pause, colore- che ora mi suonano fin troppo familiari, come se te le avessi ripetute già un centinaio di volte.
Ma sembra proprio che tu non capisca.
E in questa pausa, durante la quale aveva lo sguardo dell’uomo su di sé, gli si avvicinò in soli tre lunghi passi e gli appoggiò sul viso le cinque dita e la mano ben aperta, come per una carezza, tradita subito da un inaspettato sollevarsi del braccio e un manrovescio potente e gelido.
Ti basta?

No, non ti basta e io non ti amo: come si può amare qualcuno che non si conosce!, me lo dicesti tu, ricordi? Fu quella volta che mi portasti al bar al primo piano, due anni fa, se non erro, anzi credo fosse marzo, sì, esattamente il 13 marzo alle quindici e quarantacinque, per un caffè, ricordi?, E nel parlare la donna si era sporta su di lui e armeggiava con qualcosa esattamente all’altezza del cavallo dell’uomo, che non fiatava.
E poi iniziasti a mettere in sequenza –con aria grave- tutta quella serie di scuse tipicamente maschili che fu solo per rispetto al tuo grado e alla tua fama che non ti scoppiai a ridere in faccia: volevi difendermi, non volevi farmi del male, cercavi la persona veramente giusta, che con me avresti voluto praticare una strada diversa, quella dell’amicizia magari, della conoscenza.
A ogni pausa, l’uomo emetteva gemiti infantili, brevi e composti.
Infine, gli incise le unghie nel petto, ed evidentemente così forte, che l’uomo stavolta si lasciò sfuggire un urlo.
Ma la donna continuò come se nulla fosse.

Dicesti anche che diamo troppa importanza al denaro e che non si possono affidare certi incarichi dopo un incontro casuale. Dopo appena otto contratti di quel tipo andati a buon fine!
Dicesti anche che a volte, certe opportunità preziose non sono che eventi casuali e che di solito non si ripeteranno più.
Ricordi?
Tirasti fuori dei bla bla bla così plausibili che quasi mi convinsi che fosse vero, che eri in buona fede, che mi volevi bene sul serio e che prima o poi... Prima o poi.
E da quella posizione di tre quarti, accompagnata dalla potenza di movimento di tutto il corpo, partì un secondo ceffone che questa volta, inflitto con il palmo bel aperto risuonò ancora più a lungo.

Quando l’eco del lamento dell’uomo fu ingoiato dall’imbrunire gelido dell’inverno e si spense del tutto, la donna, rise.
Rise come un’attrice alle prime armi che ancora non ha la tecnica giusta, che non conosce la differenza tra sarcasmo e ironia, tra risata di testa e di glottide, e che per l’emozione del debutto, lasci che la voce vada su e giù senza trovare il punto giusto in cui farla risuonare e renderla significativa. E quella risata aveva un senso ancora più grave visto che risuonava spaventosa per l’ufficio vuoto e per i corridoi normalmente affollati.

Dalle finestre, il tramonto offriva un’immagine ineguagliabile di sé, come un famoso guitto, il più grande di tutti, riusciva a sorprenderla ogni giorno.
L’uomo, una sagoma scura di cui si distingueva la testa grande e calva e appena la punta di una spalla che sbordava dalla sedia imbottita a capo del lungo tavolo, stava immobile, solo, di tanto in tanto annuiva debolmente.

La donna sfilò lentamente la giacca sobria e la gonna. La sagoma minuta e sottile si muoveva in primo piano sulla città che correva verso una direzione certa.
Guardò l’orologio.
Certo che se ogni volta devo rischiare l’arresto da parte dei tuoi gorilla mi devi pagare il doppio!
Gli sorrise, mentre dalla minuscola valigetta di gran marca tirava fuori con calma i suoi strumenti di lavoro alla vista dei quali l’uomo mugolò di piacere.
Fatti alcuni passi, la donna in guepiere accese la luce.

(FOTO: EUGENIO RECUENCO)


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