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mercoledì 24 aprile 2013

È soltanto una ragazza


Lo trovo lì a ogni pulizia di primavera. I romanzi che mi regalava a ogni incontro –narrativa contemporanea- sono tutti lì, quinto scaffale a destra partendo dal basso. Non era uno da social network, no, e comunque il suo ricordo lo preferisco chiuso in questa stanza, al sicuro dal senso di colpa, il mio.

Più o meno all’inizio di ogni mese mi versava un tot sul conto. Dentro ci metteva le spese per treno o aereo, l’hotel in centro e una lauta mancia per il disturbo. Certo non il pagamento dovuto per il piacere che gli davo io, superiore a quello che prendevo, almeno stando alle lettere –prolisse- che mi scriveva durante le settimane che ci tenevano distanti.
Non ho mai capito che lavoro facesse, d’altra parte limitavamo i nostri incontri per il mondo a una camera d’albergo. Viaggiava per convegni -su non so cosa- e scriveva saggi che soltanto per dovere aprivo svogliatamente in treno, durante il viaggio di ritorno, e che usavo per aggiungere particolari al romanzo che mi ero fatta di lui.  Era stato proprio in treno che l’avevo incontrato in una mattina scura di principio autunno. Io, assonnata e nervosa, partivo per una scrittura al teatro Stabile a Modena, lui anche, ma per una conferenza.
Dopo aver trovato una scusa banale per agganciarmi: vuoi una sigaretta, mettere la faccia fuori dal finestrino, fare due passi nel corridoio affollato?, non mi si staccò di dosso per tutto il tempo. Parlava di continuo mentre io annuivo educatamente. Poi volle accompagnarmi in taxi all’hotel per fermarsi con me al desk fino ad avvenuta registrazione: per accertarsi che sarei rimasta proprio lì e non altrove, forse. Mi braccò per quarantotto ore e diventammo amanti.
Frugando tra le sue cose seppi della moglie –bella- e dei due figli –piccoli- poi, e forse già al secondo appuntamento, scoprii il carico di responsabilità che si portava addosso, le sue nevrosi, e la sua capacità di farmi dimenticare perfino dove mi trovassi.
Mi chiamava se aveva una conferenza fuori Milano e mi parcheggiava in albergo durante il giorno. Al mattino trovavo il mio viso scorticato dalla sua barba, un dolore diffuso, una buona mancia sul comodino e un biglietto, che pur variando ogni volta, aveva sempre lo stesso tono: Divertiti. Comprati qualcosa di carino. Mangia. Non fare la puttana in giro. Non masturbarti se io non ti posso guardare.

Nel suo corpo magro e altissimo si muoveva con grazia femminile. Quando decideva di punirmi, il naso già affilato gli si allungava come un pungiglione velenoso. Attraverso i fili ingrigiti della capigliatura folta, grandi occhi neri mi guardavano con un che di afflitto, come se quella fosse proprio l’ultima volta, ultimo anche lo sguardo che lanciava sul mio corpo che lo invitava a un altro giro di giostra. In Stazione era sempre uno straziante arrivederci che somigliava tanto a un definitivo addio.
Invece, il suo bonifico arrivava puntuale così come la chiamata notturna: vieni il 18 a Parigi, il 15 a Bruxelles, il 23 a Madrid.
Partivo ogni volta con nella sacca un po’ di slip e tutto il mio disincanto, con quella specie di amore che provavo per lui e l’unico desiderio di conoscere un itinerario nuovo, un panorama diverso e chissà quali specialità del posto.
In realtà fuorono pochi mesi quelli che ci videro assieme per aeroporti e stazioni, mano nella mano e sempre in corsa, tra partenze convulse con la moglie dimenticata appena oltrepassato il Gate, e arrivi pieni di gioia e stupore.
Un po’ lo disprezzavo già, ma non abbastanza per lasciarlo in attesa da qualche parte. Dovevo ancora vedere in lui l’espressione instupidita di chi è stato colto sul fatto. Non avevo ancora sentito la sua voce impastata, il respiro accelerato, la mente, fino un minuto prima brillante, che gira a vuoto alla ricerca di una scusa appena credibile. Non conoscevo ancora l’odore acre della lotta che si spande denso come quello del sangue. Lo stridere furioso delle mascelle che non riescono ad articolare: a corto di scuse ragionevoli, private di un cervello pensante che ordini loro che cosa dire. Non avevo ancora guardato su di lui l’imbarazzo della colpa che l’avrebbe finalmente spogliato dell’autorità che si portava addosso, allontanando in un attimo tutti i suoi traguardi, anche quelli già raggiunti: lauree, dottorati, pubblicazioni, premi.

Sua moglie e i ragazzi erano in montagna: vieni, dai, stiamo assieme per cinque giorni, mi disse.
Ero felice all’idea d’invadere la sua vita, di frugare nel suo quotidiano coniugale, di lasciare le mie impronte un po’ ovunque, la mia saliva, la mia pelle. Anche sul bagnoschiuma di sua moglie volevo lasciare qualcosa di me, sul profumo di lei, sul cofanetto dei suoi gioielli, nel suo letto e tra le lenzuola del suo corredo perfetto.
Non è mai bello prendere piccole mance in cambio di tanta dedizione, almeno per me e in quel momento non era abbastanza la suite a Montmartre una tantum. Se abbiamo tanti anni di differenza poi, se mi compri collari di oro bianco, se io ti permetto di andare ogni volta oltre, di denudarmi completamente rispondendo a ogni tua singola domanda, anche la più intima, sempre, anche mentre ho qualcosa di veramente grosso infilato nella bocca: i suoi boxer appallottolati, le mie mutande, una grossa mela incastrata tra i denti. Volevo di più per quello scattare sull’attenti tre volte al mese. Per i segni sulla schiena che diventavano ogni volta più profondi, i colpi giallastri e viola tra le cosce, sulle braccia. Mi doveva almeno un appartamentino in centro e vicino a Piazza Duomo per la mia capacità di giocare con lui, di assecondare la sua assurda pretesa a voler leggere strane deviazioni tra le mie parole, elementi di sospetto, tradimenti inammissibili da punire all’istante. Sarebbe bastato un piccolo mensile per ripagarmi delle ore passate in ginocchio su qualcosa che faceva veramente male. O in piedi, nuda, al centro della stanza. Avrebbe dovuto darmi mance più alte.
E invece niente.  Allora basta un incontro in treno, un timido “Ha da accendere” per incasinarsi l’esistenza. 

Così partii per Milano e per un’estenuante cinque giorni di sesso.
Eravamo al centro del salone, nella penombra pomeridiana di un agosto silenzioso e irrespirabile.
Furono soltanto le sue lettere a metterla in allarme, quelle lunghe lettere che mi scriveva e che abbandonava dappertutto assieme agli appunti per le conferenze e particolari hot, o che lanciava nel cestino tra pacchetti di Marlboro rosse, l’Unità, e cicche maleodoranti.
D’altra parte io gliel’avevo detto di rispondere al telefono dopo che aveva squillato per buona parte della mattina. Gliel’avevo detto, sì. L’avevo avvisato: forse è tua moglie!
Appoggiata allo schienale del divano, lo ascoltavo darsi da fare come un amante esperto sempre in cerca di buone occasioni per sperimentare torture in equilibrio precario. Piangevo e ridevo dell’inspiegabile felicità che colpisce gli amanti.

Quando la vide sulla porta –un’ombra sottile e un’espressione oscura- si alzò e rimase impietrito. Io nemmeno mi coprii né abbassai lo sguardo. Lei non balbettò nulla. Durante quel tempo troppo lungo lei non urlò, non pianse, non fece nessuna scenata. A un certo punto si voltò verso la porta da cui era entrata e fece qualche passo. Poi si fermò un istante come se avesse dimenticato qualcosa, tornò indietro verso noi due e guardandomi gli disse: ma è soltanto una ragazza!, e andò via senza sbattere la porta.
Appena un’ora dopo ero in Stazione con la mia sacca e nessun Romanzo, sola e con quell’indelebile “ma è soltanto una ragazza”, che faceva su e giù tra cuore e cervello, e che sapeva un po’ di preghiera e un po’ d’insulto.

2 commenti:

  1. che bello è???!!!! davvero stupendo scrivi benissimo!!! hai descritto perfettamente sensazioni a me familiari!! bravaaaa!!!

    E' soltanto una ragazza!

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