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domenica 21 luglio 2013

Una meta ideale

Ho visto troppe persone lasciare questa forma terrena dopo aver saldato l’ultima rata del mutuo, una volta realizzato l’unico sogno che avevano in mente e senza averne goduto neanche per un giorno, in luna di miele –perché la vita è un po’ puttana e molto stronza-, durante uno splendido e costoso viaggio al di là dell’equatore.
Chiamiamolo pure fatalismo, e non illudiamoci neppure per un attimo di poterlo dominare con la legge di causalità. L’occidente in cui viviamo è troppo caotico per permetterci di leggere le trame che il futuro ci riserva, e non si diventa saggi in un battito di mani.
È perciò che non ho mai messo tende da nessuna parte, né le ho mai piantate in un giardino. Nemmeno nella casa dove mi atteggiavo a moglie perfetta ho mai messo tende alle finestre. Per un presentimento, forse, per una volontà segreta, una reminiscenza, più probabilmente per un desiderio realizzato soltanto a metà: essere la stella del trapezio in un circo alla fine del mondo e poco prima dell’universo.
Forse non ho mai messo le tende per non doverle togliere. Perché se salgo su una scala, so che cadrò facilmente, perché ho perso anni della mia vita con il ferro da stiro in mano. Per un atto di ribellione al tempo che passa mentre io sono impegnata a scegliere le tende più giuste.
Non ho mai messo tende, perché aria e luce possano circolare liberamente, perché nessun assassino ci si possa nascondere dietro con un lungo coltello tra le mani.  Forse, non le ho mai messe perché mancano ogni volta i bastoni e non saprei nemmeno in base a cosa sceglierli. Perché dovrei prendere le misure mettendomi a una certa distanza e non è una facile, prima dovrei inforcare gli occhiali, e trovarli è già un’impresa.
Persino ricordarle, le dimensioni di una tenda, è un’impresa titanica per me, anche andando a grandi linee e per misure standard; (come per i sacchetti della spazzatura o per le lenzuola che devo sempre andare a cambiare). È difficile come calcolare la distanza tra il punto “x” e il punto “y”, una distanza che misuro in passi, ma che scordo un attimo dopo aver superato il traguardo o raggiunto la meta.
Mettere tende è per me difficile quanto imparare la geografia, io che non so tracciare il mio confine più prossimo e non conosco il nome del mare dove scompare la terra che calpesto -o dove nasce-, non posso comprare tende.
Forse perché i miei passi sono mossi dalla necessità di sentire più che di vedere. Perché ho la bussola rotta e non ricordo mai quale sia la stella da seguire.
Eppure non ho mai avuto bisogno di cartine, non le so leggere, volano via, si strappano, si macchiano. Così, le strade che percorro sono spesso soltanto un’opportunità da seguire, un incrocio di sguardi da ricordare e di odori, quello pungente e scuro della muffa annidata in un sottoscala, di un soffritto di cipolle che nella mia mente sa già di arrosto, di domenica e di famiglia. Quasi sempre un odore di nostalgia pungente. Una domenica che sa d’impossibile concordia familiare.
Le strade in cui mi perdo hanno luci e silenzi, una statua votiva piena di fiori freschi, o un carretto con sopra gerani rosso sangue disposti casualmente.
Sono voci lontane quelle che seguo per le vie sconosciute del mondo, ricordi in bianco e nero, che dalle vetrine di un vecchio negozio di articoli da regalo mi guardano da cornici sobrie o costose, dagherrotipi di un vecchio zio della proprietaria che, nella bottega, colleziona storie e cianfrusaglie.
Eppure, perfino a Denpasar sono riuscita a non perdermi. In una periferia fatta di strade tutte uguali e dai nomi impossibili, tra negozi identici e che esponevano gli stessi souvenir, ho camminato per delle ore per tornare, puntuale, lì dove ero partita. Ho seguito pozzanghere e fango, il gracidio assordante delle rane e il passo degli altri che, come me, andavano “jalan jalan”. E “camminando camminando”, e strada dopo strada non trovo mai tende da piantare, mai case veramente giuste, mai un punto di arrivo.
Tutta la mia vita può stare in un borsone.
Davanti al mondo degli adulti, che ancora mi respinge così pieno di problemi e sofferenze ingiuste, penso che se tutto andrà per il verso sbagliato, arriverò a piedi al polo nord con una sacca in spalla. Non c’è un perché in questo pensiero che di notte mi salva dalla paura infantile di una morte ingiusta o prematura. È un’uscita di sicurezza, uno “dove” possibile, verso cui incamminarmi comunque vada, in caso non riuscissi a trovare tende da piantare.

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