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domenica 15 dicembre 2013

E poi c'è il mare.




Ho odiato la scuola sin dall’asilo.
L’abbandono delle bambole al buio del cesto e della stanza dei giochi. Il freddo bianco latte che ghermiva il paesaggio. La direttrice truccata da maitresse con tanto di unghie spaventose. Il plesso scolastico dai pavimenti grigi, cosparso qua e là da segatura che copriva i resti della colazione del più timido, del meno studioso che chiamato alla lavagna s’impallava miseramente davanti all’addizione più semplice.
Le attenzioni della maestra da dividere con i compagni, come l’onore di strappar via il foglietto dal calendario, i canti corali anziché da solista, il grembiule, che sotto il blu elettrico nascondeva tutti i colori.
L’interrogazione, cui ho resistito come un’agente della CIA anche dopo, negli anni del liceo, quando mettevo in atto la tecnica appresa già nella culla, la minaccia di un crollo emotivo simulata attraverso il lieve tremolio di mento e labbra, e l’immediato illuminarsi dello sguardo di un luccichio sinistro.
Nulla era più vile per me che dover essere costretta a mostrare alla classe le mie qualità.
Non c’era niente di meglio durante quelle ore di ozio, mentre i compagni si davano da fare a primeggiare, che contare sotto il banco figurine, leggere grandi classici fuori programma, rincorrere con lo sguardo, in cortile, le rare foglie che si staccavano dai rari alberi, o il pulviscolo danzante, che si rifugiava nei raggi di sole per finire sul mio banco e tra le mie dita.
Consideravo vanagloriose le energiche alzate di mano e gli acuti “io, io!” che rimbombavano in classe, ridicolo, il tentativo di ognuno di dare la risposta più giusta.
A che pro, mi domandavo, stare a tu per tu con sussidiario e libro di lettura quando fuori succedeva il casino, mentre fuori si sparava e ci si menava di brutto.
Comunque, ricreazione e cambio ora hanno sempre rappresentato il mio riscatto. Finalmente libera facevo propaganda distribuendo prima figurine e miniflex, poi volantini o idee, cercando, sia prima che poi, il mio futuro ragazzo, con parvenze fiabesche se possibile, anziché da cartone animato.

Tutto il resto era ansia o noia mortale. La scuola era confronto, la presa d’atto dolorosa che per essere la più brava dovevo gareggiare, alzare anch’io il braccio, strillare più forte e, soprattutto, conoscere la risposta giusta.
Tra le peggiori frustrazioni di quel tempo grigio, che sapeva di mandarino e banana sfatta, le galoche che mia madre non volle comprami, salvo poi scoprire di aver costruito un dramma esistenziale su un fatto inesistente, grazie alla missiva anonima di un ex compagno di classe.
Cara amica, nei mie sogni mi ritrovo bambino con te che scendevi le scale vestita così: mantellina di loden, passamontagna rosso, galoche rosso brillante bordato giallo canarino.
Mai attribuire ad altri il merito della propria indole ribelle.

La decisione di non indossare più il grembiule fu il mio primo atto sovversivo allo stato di bambina.
Indifferente allo scherno dei compagni e alle occhiate gelide delle altre mamme, andai fino in fondo, fino all’umiliazione di venir esclusa dalla foto di fine corso. In segno di sfida, quel giorno indossai un maglione rosso.
Distratta da ciò che c’era fuori, e viveva, fissavo il mondo degli adulti con sguardo attento. Il vigile urbano, esempi di maschia virilità i suoi gesti autoritari e i baffi, la divisa inamidata e le scarpe lucide. Il ragazzo che consegnava i fiori, un Paul Newman del sud dallo sguardo verde petrolio e il jeans aderente, alto in vita e consumato proprio lì davanti.
E non fissare la gente!, mi diceva l’adulto di turno.
E non fare linguacce!, esibite magistralmente solo in risposta alle provocazioni del mostro della macchina accanto, anche lui messo di dietro come un pacco postale, ignaro anche lui della destinazione ultima di quello che mi sembrava sempre un viaggio misterioso, pieno di sorprese e soste, come quelle alla stazione di servizio, dove giovanotti in tuta gialla, mi fecero conoscere, inserendola direttamente nella cinquecento, la prima (ma non ultima) sostanza stupefacente.
Fuori da quel plesso grigio era tutto più bello. Tutto assai pericoloso, stando almeno alle raccomandazioni degli adulti cui comunque non ho mai creduto.

Nemmeno oggi che sono donna fatta (non solo in termini anagrafici) presto ascolto agli inutili moniti.
Si possono vivere più vite in una sola esistenza, grattare più fondi di barile e prendere decisioni che si sentono giuste soltanto nella pancia. Anche se sarà uno sfacelo andrà bene lo stesso, è sempre il nostro viaggio.
Non ho mai creduto che il talento valga poco, né voglio indossare la divisa da perdente.
Non so dove sia il traguardo della nostra esistenza, né chi abbia deciso di fissarlo esattamente in quel punto lì.
Non dipendono dagli altri le mie letture o il mio ottimismo.
Scelgo io stessa dove inerpicarmi. Non uso guide turistiche per attraversare le città, mi lascio trasportare dalle voci o dal silenzio, dal movimento della notte, da un passo che mi richiama all’amore.
Fuori c’è il mare. Coppie di anziani passeggiano, giovani in gruppo, uomini soli e donne guardano l’orizzonte assieme a me, ma in perfetta solitudine.
Non c’è soltanto chiasso, il primeggiare a forza di alzate di braccia, l’affermazione di sé a ogni costo.
C’è anche la ricerca fine a se stessa.
Il compimento di un’opera che sia allo stato dell’arte.
Prima c’è il viaggio. Un dove recarsi. Ci sono altri cieli da toccare e mete diverse.
E poi, per affermarmi dovrei prima sapere qual è risposta giusta, e per fortuna, non credo proprio di conoscerla.

(In libreria: http://www.inkedizioni.com/justine-2-0/)

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