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venerdì 25 aprile 2014

Vittorio, io me lo ricordo bene

Il piacere di rivederlo fu pari alla delusione di capire che di me e di quei giorni assieme, lui non ricordava niente. È strano come tra tanti ricordi riusciamo a tenerne vivi alcuni e a ucciderne altri. Mi domando anche quale sia il criterio di scelta, se il senso di colpa, l’incuria o la più semplice indifferenza. Quante “me” esistono nel ricordo di qualcuno, e quante invece sono scomparse dalla memoria di un altro? Perché una dimenticanza equivale a un omicidio, e che Vittorio mi avesse uccisa lo capii in quell’istante, alla cassa della libreria affollata di una strada del centro, quando nel cedermi il passo, non mi rivolse che un breve sguardo e un sorriso di circostanza, quello di uno sconosciuto qualunque.

Quando Alex mi propose di andare a Mercadante per il ponte del 25 aprile gli dissi subito di sì. Non mi domandai come ci saremmo arrivati, da liceali e senza patente. Non mi chiesi nemmeno se i miei mi avrebbero dato il permesso. Ma a sedici anni si può tutto. E così mi lanciai verso l’ignoto, un viaggio che sarebbe iniziato il venerdì successivo alle otto e trenta davanti al solito bar, vestita con roba pesante e munita di sacco a pelo.

Vittorio, il fratello grande di Alex, era alla guida della sua cinquecento rossa.
Avevo sognato di pomiciare in quell’auto con lui alcune migliaia di volte, sempre durante le lezioni di Greco, mentre il professor Marvulli, dopo averci garantito un nostalgico sei politico, procedeva nel suo monologo poetico e sicuramente interessante.
Vittorio era bellissimo. Un Mastroianni intinto in Bardem e rifinito con un po’ di Bruce Willis.
Maschio, terribilmente virile e torbido. Scuro, villoso e lievemente profumato di patchouli. Litigioso, sempre in testa al corteo o nel servizio d’ordine, la bandana rossa e le clarks consumate, la borsa di cuoio piena di cicche, filtri, tabacco e fumo. Sempre pronto al confronto dialettico in assemblea, sempre in prima linea nella lotta per i diritti.
Stando agli sguardi delle sue donne, diverse e tutte belle, potei supporre fosse anche un maschio esperto.
In realtà aveva soltanto ventitré anni, ed era un maschio e basta. Di quelli che se ti prendono per mano sai già che non sarà per sempre, ma che ti fanno cedere comunque in un istante, cedere all’illusione, a quella propensione istantanea all’innamoramento, che dura un solo attimo, ma è sempre intensissimo, che bisogna godersi fino in fondo perché diventerà via via sempre più raro fino a essere dimenticato nel nulla. Ucciso, come Vittorio aveva fatto con il mio ricordo.

Anche quel mattino rise, sfiorandomi le labbra come si faceva tra compagni. Come sempre mi spettinò i ricci, e come ogni volta mi domandò di accendergli una sigaretta.
Alex, sul sedile posteriore con me, si divertiva a rollare canne, la tizia che stava con Vittorio cantava lievemente, io guardavo Vittorio, che guardava la strada piena di curve tra la campagna. Una nebbia leggera rendeva tutto surreale, anche il sorriso che Vittorio mi restituì dopo aver intercettato il mio sguardo nello specchietto, e l’espressione severa che fece poi, quando si domandò perché lo stessi fissando.
Ci conoscevamo da anni. Ci vedevamo quasi ogni giorno. A casa sua, in cucina, quando Alex ed io ci prendevamo una pausa dai libri e lui anche. Conoscevo i suoi piedi lunghi e magri, la risata che riempiva di sole anche le giornate più buie. Le sue battute sui professori. Gli slogan che la notte avrebbe scritto sui muri di una città di provincia che gli stava già stretta.
Io e il mio sguardo in estasi ai suoi racconti di guerriglia urbana… roba che a vederlo lì in libreria, più di vent’anni dopo, con ai piedi nuovissime Endless Ceremony non l’avrei nemmeno immaginato.

Comunque, già quel mattino, mi seguì con lo sguardo, in autogrill, mentre sculettavo vistosamente verso i bagni. Lo vidi chiaramente quando mi voltai verso Alex urlandogli di comprarmi birra e sigarette. Perché a sedici anni si può tutto. Anche bere una doppio malto di prima mattina.

Arrivati alla masseria, furono distribuite stanze e mozziconi di candela per la notte. Ci lanciammo sul letto. Io e suo fratello, naturalmente.
Credo di aver finto il miglior finto orgasmo della mia vita. Le camere erano adiacenti, Vittorio avrebbe potuto sentirmi e Alex, credermi. 
Poi corremmo tra i boschi. La primavera prepotente nelle narici e nella testa.
Mi finsi esperta di brace e di arrosto, così da metter Alex e la tizia in cucina, a tagliare insalata e pomodori.
Io e Vittorio restammo per un po’ in silenzio. Un silenzio pastoso e morbido che prelude sempre a qualcosa.
Di tanto in tanto mi passava da fumare. Ci guardavamo e scoppiavamo a ridere. Impacciati, come si può essere da ragazzi.
Il fuoco, il vino e la mia naturale attitudine al rischio, fecero sì che gli passassi la mano sulla nuca, che lo guardassi solo un attimo, e che quell’attimo bastasse a dirgli tutto.
Forse dissi anche un po’ troppo visto che Alex, entrando, fu costretto a interromperci tossendo, nascondendo subito in quella comicità da pagliaccio, più di una punta di dolore.

Cantammo fino all’alba. A quell’epoca una chitarra c’era sempre, e anche una voce lieve come quella della ragazza, che per tutta la sera non aveva fatto che intonarne di nuove senza badare a me a Vittorio che ci sfioravamo con ogni scusa.
Dormimmo come si può non dormire a quell’età, un’insonnia piena di sogni e non di affanni, quella che raggiungono anche i saggi, o chi non ha più niente da perdere.
Il bosco ci accolse ancora a mezzogiorno e risuonò delle nostre risate. Il pomeriggio passò pigro e lento. Alex leggeva fumetti, la ragazza disegnava, io guardavo Vittorio che fingeva di fare un solitario, e che aspettava non lo guardassi più per potermi a sua volta guardare.
A tavola mi passò un biglietto. Le strategie sono sempre le stesse, che sia Valmont o Vittorio G., che si viva settecento, nel post sessantotto o nel 2014.

Quando alle cinque del mattino mi trovai davanti alla stalla mi tremavano le gambe. Non era il freddo ma la consapevolezza di andare incontro a qualcosa di grosso.
Vittorio mi prese alle spalle e posò le sue labbra forti su ogni benedetto centimetro della mia nuca. Il freddo di un aprile battuto da una tramontana del tutto fuori luogo era un lontano ricordo. La sua sapienza di studente in medicina, no.
Fu tutto come doveva essere. Anche la luna piena che ci guardava dalle travi sconnesse della stalla.
Per una sedicenne qualcosa da ricordare a vita, per lui, evidentemente no.


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