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lunedì 2 febbraio 2015

desigual



Ricordo che non eravamo tutti uguali.
All’asilo, in un tempo analgico da maglioncini di filanca e lana mortaccina, un bambino aveva così poca scelta nei colori, blu, bianco e marrone, che per differenziarsi dagli altri poteva servirsi soltanto la propria fantasia.
I miei colleghi bambini urlavano dal banco di voler fare i piloti d’aeroplano, i militari, i professori, i maestri, alcuni gli operai come il padre.
Le mie compagne di classe non volevano fare le attrici. Anzi, io ero l’unica, guardata con diffidenza, tenuta un po’ a distanza, come se la malattia della ribellione e del pensiero diverso potesse contagiarle.
Mentre loro si davano da fare attorno a finti bebè e finti fornelli, io provavo a ballare il tip tap e a studiare dizione ancor prima d’imparare a leggere.
Crescendo peggiorai.
Iniziai a rubare rossetti e matite per gli occhi.
Le elementari mi videro fidanzata a due bambini e causa di molte risse.
Sapevo che la colpa era nel nome, sapevo anche che così era più divertente, non sapevo però che mi avrebbero ghettizzata, segnata a dito come una ladra, messa al banco più distante dal loro.
Anche se non si può chiamare “puttana” una bambina.
Non si può spintonarla fino allo sgabuzzino buio perché durante la festicciola se ne rimanga lì e non disturbi gli amichetti, e soprattutto non rubi i cavalieri alle altre.

Sentire addosso il livore di chi non aveva fantasia, di chi viveva la vita in bianco e nero, di chi non doveva colmare assenze inventando favole, mi ha fatto bene.
Mi ha insegnato così tanto che oggi non mi meraviglio se nessuno mi tende la mano. O se chi lo fa non lavora nel mio stesso ambito.
La comprensione dell’irrazionale crudeltà infantile mi ha aiutata a perdonare lo sgarbo adulto, la disattenzione ben calcolata di chi con la coda dell’occhio mi guarda annegare.
Perché niente è meno comprensibile della cattiveria di un bambino e nulla è più normale di quella di un adulto.
Da piccola ho cominciato a esercitarmi a ricordare che vincere non ha come logica conseguenza la lode, che qualcuno lo farà anche, ma a denti stretti. Che spesso dopo il raggiungimento della meta ci si troverà da soli a brindare al buio.

Allora ho scelto l’ambito che meno interessava agli altri, quello dove per riuscire non bastava studiare, dove le basi di partenza erano (ora non più) talento e fisico del ruolo, dove una prima selezione mi avrebbe già garantito un salvacondotto e il biglietto del treno.
Ho superato selezioni e attese estenuanti, rifiuti brucianti, porte in faccia. Mentre i miei amici studiavano diritto e anatomia al caldo della loro cameretta, io vagavo per la capitale alla ricerca di una stanza in affitto, impaurita e sola.
Per il teatro, per l’arte in generale, ho fatto sacrifici, studiato, sofferto non sentendomi mai veramente all’altezza.
Perché la perfezione non appartiene agli umani, come la solidarietà.
Perché ci sono ambiti in cui la diversità è la sola cosa che conta.
Perché migliorarsi è il solo trucco per non finire tra le fila dei mediocri.

Così mi hanno insegnato a superarmi, a odiarmi quasi pur di non apprezzarmi mai fino in fondo. Perché ci sono mestieri in cui fermarsi equivale a morire, in cui c’è sempre di meglio e di più non da odiare, non da copiare, ma da superare in meglio.
Perché esiste un’etica che ci impone di elaborare prima e di esporre poi, perché ciò che facciamo abbia sempre un senso che quasi mai è intrattenimento. Perché c’è chi è morto per lasciarci qualcosa di scritto, e che mai avrebbe pensato che scrivere servisse a diventare popolare.

Sono cresciuta pensando che tanti stanno meglio in pantofole e che non tutti siamo Fred Astaire, oggi mi ritrovo a leggere brutte copie di “aforismi on line” e a dover gareggiare con chi per arrivare alla meta usa soltanto scorciatoie.
Ci sarà un giorno in cui la mediocrità che state promuovendo sarà dappertutto, e voi non avrete più niente da guardare.


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